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Dott.ssa Daniela Birello, Psicologo - Psicoterapeuta, Specialista in Psicoterapia Breve Strategica. Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica di G. Nardone. Cell. 347 4897372. ​Riceve a Pontedera, Pisa, Livorno
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Il dubbio patologico: la tirannia del pensiero

6/27/2017

 
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"Il dubbio è il motore della conoscenza, ma è anche il trampolino di lancio dell'ossessività"
(Giorgio Nardone)
Cosa accade quando di fronte a scelte e situazioni indecidibili cerchiamo di applicare quello che può essere definito “cogitocentrismo”, ovvero il raziocinio più ferreo? Il pensare troppo, il razionalizzare, da strumento infallibile spesso diventa un vero e proprio ostacolo che, una volta irrigiditosi nella sua manifestazione, si trasforma in patologia.
 
Il nostro bisogno arcaico di sicurezza ci spinge a cercare il conforto in verità rassicuranti.
A tutti è capitato almeno una volta di pensare e ripensare a quello che si stava per fare, alla scelta da adottare. Se ciò diventa la regola, ovvero se di fronte a ogni decisione mi incastro in una circolo vizioso di domande che portano ad altre domande però è molto probabile che inizi a provare ansia e incapacità personale e relazionale.

Il pensare diviene oggi lo strumento principale per affrontare le proprie insicurezze e i propri timori. Quando tale modalità viene estremizzata, e soprattutto quando viene applicata a fenomeni a cui non può adattarsi come le paure irrazionali, i dubbi, le relazioni amorose controverse, da risorsa si trasforma in limite.
 
La logica si trasforma in trappola. Il pensare, da pilastro fondamentale dell’attività umana, può divenire la matrice di profonda sofferenza che va dalla tirannia del dubbio all’incapacità di prendere una decisione, dal continuo mettere in discussione le proprie idee fino al dubbio come vera patologia della mente.
 
Le tipologie disfunzionali di ragionamento basate sul dubbio sono diverse.
Una si verifica quando di fronte a tante possibilità diventa molto difficile e laborioso scegliere.
Ci sono poi situazioni in cui si resta bloccati nel ragionamento che chiede una risposta rispetto a quale sia il partner più idoneo per sé, magari avendone due a disposizione, complementari per noi.
Un’altra variante è poi l’iper-razionalizzazione del ragionamento che porta a un’incapacità di agire in tempi brevi: l’analisi dettagliata della situazione di trasforma in trappola.
 
Quando il dubbio patologico prende il sopravvento ciò che può fare la differenza è proprio la modalità con cui ci poniamo dubbi e domande e quella con cui cerchiamo le risposte.

Mettendo in discussione la correttezza degli interrogativi si può bloccare il circolo vizioso della ricerca di risposte corrette a domande scorrette. L’intelligente dà risposte esatte, il saggio fa le domande giuste.
 
Per richiedere maggiori informazioni sul tema o per un appuntamento si rimanda qui.
Per approfondimenti: “Cogito ergo soffro”, G.NARDONE con Giulio De Santis.
 
Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
danielabirello@gmail.com

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)

6/19/2017

 
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Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è una vera e propria trappola mentale.

In Terapia Breve Strategica lo descriviamo come il bisogno irrefrenabile di avere il controllo della realtà e si esprime attraverso una serie di rituali, azioni o pensieri.
Il ripetere in maniera ridondante tali rituali produce un effetto rassicurante nella persona che sente così l’illusione di avere il controllo di ciò che può accadere o degli effetti di ciò che è accaduto. Quello che parte da un bisogno razionale di controllo diventa così totalmente irrazionale.
 
Comportamenti e pensieri di per sé “sani” come l’attenzione per l’igiene personale e quella della propria casa vengono intensificati a tal punto da essere trasformati in compulsioni irrefrenabili, ovvero rituali ossessivi e ripetitivi. Ed ecco che la vita della persona progressivamente inizia a perdere il suo ritmo abituale.
I rituali indotti dalla compulsione diventano ciò che scandisce le sue giornate.
 
Chi soffre di DOC si ritrova ben presto rinchiuso in una prigione: prima di andare a letto è sano controllare che il portone di casa sia chiuso, ma è insano svegliarsi più volte di notte e ricontrollare se è effettivamente così.
Lavarsi le mani dopo essersele sporcate è un’azione utile, ma diventa patologica se si trasforma in un lavarsi per ore nel dubbio di aver toccato qualcosa di sporco e, dopo il lungo lavaggio, dubitare ancora di essere sporchi e sentirsi costretti a rilavarsi nuovamente.
 
Il DOC muove da presupposti logici che, esasperati, giungono all’assurdo. Questo vuol dire che in tale patologia ciò che è corretto e sano diviene, attraverso una ripetizione portata all’eccesso, una vera e propria trappola che nasconde alla base un bisogno di rassicurazione rispetto alla propria realtà.
 
Non è solo la paura a poter dare avvio a un disturbo ossessivo-compulsivo (paura di essere sporco, paura di non aver chiuso bene la porta, ecc.); il DOC può presentarsi anche sotto forma di compulsioni basate sul piacere (la compulsione a strapparsi i capelli, la voglia di provocarsi dei tagli per provare l’ambivalente sensazione di dolore/piacere, ecc.).
 
Un altro aspetto da sottolineare quando si parla di DOC è  che, talvolta, oltre al soggetto tale disturbo coinvolge anche il coniuge o i familiari. Questi ultimi, nel tentativo di aiutare la persona, diventano complici della patologia.
 
L’approccio di Terapia Breve Strategica, nel suo modello evoluto formulato da Giorgio Nardone, si è dimostrato estremamente efficace nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo.
Una Terapia Breve Strategica è infatti in grado di oltrepassare i normali percorsi razionali: mediante l’utilizzo di stratagemmi terapeutici meticolosamente pianificati riesce a spezzare il circolo vizioso basato sulla paura o sul piacere innescando in breve tempo un cambiamento al di là dello sforzo volontario del paziente.
 
Per richiedere informazioni o un appuntamento per il trattamento di un disturbo ossessivo-compulsivo si rimanda qui.
Per approfondimenti si rimanda al libro “Ossessioni compulsioni manie. Capirle e sconfiggerle in tempi brevi”, G. NARDONE con Claudette Portelli.
 
Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
danielabirello@gmail.com

La messa a letto

6/6/2017

 
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Spesso i genitori lamentano difficoltà nella messa a letto dei figli.
Ciò che fanno, solitamente, per cercare di risolvere il problema è continuare a farli dormire nella culla accanto al letto matrimoniale o nel letto matrimoniale stesso. Puntualmente però questo non porta a grandi risultati.
 
Per non rischiare che la stanchezza prenda il sopravvento e mandi in tilt le energie dei genitori può essere opportuna un’azione più incisiva, da replicare quotidianamente per una ventina di giorni.

L’obiettivo è trasformare la nanna in una sana esperienza routinaria sia per i piccoli che per i genitori stessi. Quindi:
  • allontanare il lettino dalla camera matrimoniale;
  • spostarlo nella cameretta insieme a un’accurata selezione di oggetti che da quel momento in poi accompagneranno il piccolo durante le notti: il peluche preferito, la giostrina girevole sopra la culla e, se lo utilizza, un ciuccio pronto all’uso.
 
Dato che i bambini sono molto abitudinari sarà importante procedere tutti i giorni nello stesso modo:
  • coccolare e giocare con il piccolo per una mezz’ora;
  • portarlo nella sua cameretta;
  • metterlo a letto insieme agli amici della notte dandogli un bel bacione e allontanandosi subito.
 
La prima sera, non vedendo né il papà né la mamma in camera con lui, potrebbe aumentare il numero dei pianti; la seconda sera, con molta probabilità, se si rimane fermi nell’intervento il numero dei pianti e dei risvegli inizierà a diminuire.
 
Se il pianto si prolunga, ogni tre minuti (alternandosi, e quindi una volta il padre e una volta la madre) si potrà andare da lui e dirgli, in maniera dolce e sicura, che dormirà da solo con il suo peluche, il ciuccio e la giostrina.
Mentre si dichiara ciò, sarà molto importante evitare di prenderlo in braccio o dargli la mano per farlo addormentare.

Apparentemente, fare così potrebbe sembrare duro ma in realtà, una volta che la mamma capisce che il pianto del suo bambino è una lamentela e che differisce dal tipico pianto per fame o per bisogno di essere cambiato, potrà procedere senza timore. Spesso i figli utilizzano il pianto per far si che i genitori li prendano in braccio!
 
Se il problema persiste è possibile chiedere una consulenza o una terapia breve strategica indiretta.  In pochi ma incisivi incontri i genitori potranno concordare con il terapeuta l’obiettivo da raggiungere e ricevere le indicazioni mirate alla loro situazione. Per richiedere un appuntamento si rimanda qui.
 
 
Per approfondimenti si rimanda al libro “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.NARDONE e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica.
 
Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
 Per maggiori informazioni sul tema o per richiedere un appuntamento: danielabirello@gmail.com

Photo by Bastien Jaillot - Unsplash

Bambini e cibo: vietare per ottenere

5/27/2017

 
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Milton Erickson desiderava che suo figlio minore mangiasse le verdure, ma il figlio non era dello stesso avviso. Più volte la madre insistette col figlio, ma niente e nessuno poteva smuoverlo dalla sua decisione.
Erickson allora prese a vietargli di mangiarle: “Le verdure sono solo per i bambini più grandi, non le puoi mangiare”.
Gli disse queste parole più volte, per diversi giorni, finché un giorno il figlio chiese: “Papà, adesso sono abbastanza grande per mangiare le verdure?”.
 
A tavola, il compito del genitore dovrebbe essere quello di far seguire al bambino una corretta alimentazione e invogliarlo a mangiare tutto ciò che è importante per crescere in salute.
Non sempre, però, ciò che l’adulto propone al bambino riscuote successo immediato: la tavola è uno dei luoghi ideali per “avere il coltello dalla parte del manico”.
 
Spesso, l’ora dei pasti si trasforma in teatro di ricatti e sfide che i piccoli provocatori intraprendono per mettere in discussione le regole appena stabilite dall’adulto. Ciò che accade poi è che, di fronte a tali manifestazioni, ci si sente più fragili, e si cede, assecondando le bizze del figlio per paura che non mangi più.

Il danno è presto fatto: il momento piacevole del pasto si trasforma in una circostanza infernale.
 
Gestire i capricci a tavola: cosa non funziona?
In un’unica parola, non funziona l’esortazione. Ovvero, tutti quei tentativi che vanno dalla richiesta rigida del “mangia e zitto!”, a quella del ricatto “se mangi ti compro un regalo”.
 
Il forzare e fare pressioni
È il comportamento più utilizzato dagli adulti che si trovano a fronteggiare il problema: il bambino rifiuta di mangiare un alimento, il genitore tende a insistere nel tentativo di far mangiare il figlio sperando che ceda.
Questo perché l’eventualità che il figlio possa mangiare di meno, o addirittura saltare il pasto crea angoscia e genera fantasie catastrofiche: “non mangerà, non crescerà, avrà problemi”.
L’insistenza si trasforma man mano in costrizione, mette il bambino a disagio e gli impedisce di vivere la sensazione del piacere che dovrebbe accompagnare l’esperienza del pasto. Proseguendo su questa linea, arriveranno presto i capricci e i rifiuti ostinati che porteranno l’interazione genitore-figlio verso l’innescarsi di vero e proprio “braccio di ferro”.
 
L’invogliare e il promettere
In altri casi, di fronte al rifiuto di mangiare qualcosa il genitore promette premi o ricompense in cambio del piatto pulito. Molti genitori hanno difficoltà a tollerare i conflitti con i propri figli, e per questo, trovano come via d’uscita proprio la contrattazione. Giocattoli, permessi a cose di solito non consentite diventano la leva per cercare di estorcere che il figlio mangi. Purtroppo, quando questa soluzione diventa la regola, il bambino apprende che sarà sufficiente lagnarsi un po’ per riuscire a ottenere ciò che desidera. Anche in questo caso, il piacere di mangiare viene sostituito dal piacere di ottenere qualcosa.
 
Cosa funziona? Il vietare per ottenere
Interrompere le tentate soluzioni* del forzare e fare pressioni e dell’invogliare e promettere è il primo passo.
In terapia breve strategica rendiamo possibile ciò chiedendo ai genitori di impegnarsi nell’evitare di parlare del problema e nell’interrompere ogni forma di “forzatura” a mangiare.

Tale indicazione permette di ottenere una prima inversione di rotta del problema: i “vantaggi secondari” del comportamento problematico, ovvero i benefici che il bambino ottiene mantenendo quel comportamento, si interrompono.

A questo punto, segue la negazione, ovvero, il vietare per ottenere.
I genitori dovranno mettere in pratica alcuni piccoli boicottaggi, proprio come nell’aneddoto di Milton Erickson.
Dichiarare al figlio che certi cibi sono “solo per i grandi” vietandone l’assaggio; fare porzioni minime nel suo piatto, gustare pietanze prelibate in sua presenza ostentando piacere e, esclusivamente nei casi in cui il figlio si lamenta prima di essersi seduto a tavola, proibire di sedersi a tavola a mangiare o non apparecchiare per “chi non ha appetito”.
Cambiare rotta inserendo tali indicazioni e mantenendole per un certo periodo equivale a frustrare il sintomo e porta il bambino ad abbandonare la posizione rigida assunta fino a quel momento.
 
Attraverso una consulenza o una terapia breve strategica indiretta, i genitori potranno chiedere l’intervento più efficace per il proprio caso concordando con il terapeuta l’obiettivo da raggiungere.
Saranno sufficienti pochi ma incisivi incontri affinché i genitori acquistino maggiore sicurezza e capacità nella gestione del problema, fino a farlo svanire.  Per richiedere un appuntamento si rimanda qui.
* è il principale strumento operativo del lavoro strategico ed è rappresentato da tutti quei tentativi di soluzione ridondanti (azioni personali, pensieri soggettivi, dinamiche relazionali, emozioni dominanti, ecc) che costantemente la persona mette in atto nel tentativo di superare il problema, ma che invece di risolverlo lo amplificano.
 
Per approfondimenti si rimanda al libro “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.NARDONE e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica.
 
Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
 

Per maggiori informazioni sul tema o per richiedere un appuntamento: danielabirello@gmail.com

Ansia pre-gara: trasformarla da limite a risorsa

3/30/2017

 
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La performance sportiva richiede all’atleta elevate capacità di percezione e reazione a “ciò che accade”, sia a livello tecnico ma anche, e soprattutto, mentale.
 
E se il “ciò che accade” porta a una paura?
Paura di non farcela in occasione di un incontro sentito; paura di non riuscire a segnare il punto che determina la vittoria; paura di sbagliare un rigore; paura di fare una pessima figura di fronte al pubblico, all’allenatore o ai compagni di squadra; paura di non riuscire a terminare la prestazione quando si tratta di lunghe competizioni, ad esempio. Una paura che può presentarsi sotto forma di segnali ben precisi come emicrania, aumento del battito cardiaco, sudorazione accelerata, respiro faticoso?
 
Allenamento mentale per sconfiggere l’ansia pre-gara
Che sia chiaro: un certo livello di ansia pre-gara è funzionale per qualsiasi atleta, rappresenta una risorsa! Quando però questo diventa troppo, rischia di trasformarsi nel suo perfetto opposto, un limite che, in alcuni casi, può portare, se non gestito, sino a un possibile blocco totale della performance.
 
Allenare la mente in vista di un appuntamento sportivo ha il grande privilegio di rendere fluida la prestazione (quando ciò accade si definisce: “trance agonistica”).
 
Per un’efficace preparazione psicologica pre-gara il terapeuta strategico prima di tutto andrà a indagare tutti i tentativi disfunzionali fatti dall’atleta per risolvere il problema (ricerca delle tentate soluzioni) che, al contrario, non fanno altro che aggravarlo, peggiorandolo (evitamento”, anche mentale, della situazione temuta e “tentativo fallimentare di controllo” della paura stessa). Dopodiché, lo guiderà nell’esercizio della “peggiore fantasia”. Infine, una volta smontata la paura, per focalizzare l’attenzione dell’atleta sui possibili svolgimenti del combattimento facendogli anticipare i punti critici affinché si creino in lui le adeguate contromisure, prescriverà un’ulteriore efficace tecnica: la visualizzazione.
 
La tecnica della “peggiore fantasia”: qualcosa in più
Attraverso un preciso addestramento, che richiede specifici tempi e luoghi, l’atleta, sotto la guida del terapeuta strategico, impara man mano a modulare e regolare autonomamente la sua paura e le situazioni critiche che la presentano, annullandola tramite il tentativo volontario di aumentarla (ricercare volontariamente la paura per azzerarla, prodursi il film dell’insuccesso e del fallimento della propria prestazione).
L’obiettivo è di far in modo che egli si confronti con la paura e realizzi un’esperienza percettiva nuova, ovvero la riduzione della paura attraverso il tentativo volontario di esasperarla.
In una frase: “Guardare la paura in faccia la trasforma in coraggio”.
 
Per approfondimenti si rimanda al libro “Risorgere per vincere. Una storia di talento, tecnica e strategia mentali”, A. Montano, G.Nardone, G. Sirovich
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Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
Per maggiori informazioni sul tema o per richiedere un appuntamento: danielabirello@gmail.com

GENITORI E COMPITI POMERIDIANI DEI FIGLI: 5 ERRORI DA EVITARE

1/27/2017

 
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Nessuno nasce autonomo e desideroso di fare i compiti.
Autonomia e piacere per lo studio, soprattutto in età scolare, possono essere raggiunti, solo e soltanto, se allenati quotidianamente.

Cosa è efficace fare da genitori quando i figli mostrano difficoltà e controvoglia rispetto ai compiti pomeridiani?

  1. EVITARE DI SOSTITUIRSI A LORO. È bene ricordare che mamma e papà possono accompagnare, incoraggiare, ma mai sostituirsi totalmente ai figli! I compiti sono un’azione da intraprendere in prima persona, una prova in cui è bene misurarsi da soli. Fare i compiti al posto dei figli, lì per lì potrebbe sembrare che funzioni, perché comunica “ti aiuto perché ti voglio bene”; subito dopo, diventa controproducente, perché non solo non da loro modo di imparare, ma li fa sentire man mano incapaci e demotivati a fare da soli (dopo il “ti aiuto perché ti voglio bene” arriva repentino anche il messaggio “mamma e papà ti aiutano perché pensano che da solo non sei in grado”).
  2. EVITARE DI CORREGGERE SEMPRE. Lasciare ai figli lo spazio, il tempo e il diritto di sbagliare, perché solo sbagliando si impara. Correggere puntualmente i figli, in particolare all’inizio della carriera scolastica, può demotivarli e impedire loro di acquisire fiducia nelle capacità personali. Più che fare i compiti al posto loro, è utile mandarli a scuola senza i compiti fatti. Tale possibilità, non andrebbe vissuta come un atto genitoriale irresponsabile, bensì efficace poiché rappresenta la via più immediata per sviluppare in loro senso di responsabilità e autonomia. 
  3. EVITARE IL TROPPO. ALTERNARE AIUTO E AUTONOMIA. “Leggi fino a qui, io ascolto, poi correggiamo insieme” ; “continua a esercitarti fino a questo punto, quando hai finito verifico”. L’aiuto dei genitori è funzionale solo se circoscritto all’inizio e alla fine di un compito. Solo così i figli hanno modo di sperimentare le proprie capacità e acquisire sicurezza.
  4. EVITARE DI NEGOZIARE, CONTRATTARE, TEORIZZARE. INDIRIZZARE VERSO L’AZIONE. Per far sì che inizino i compiti è bene coinvolgerli in un comportamento concreto: “È ora! Leggi l’esercizio e vediamo cosa chiede…”, senza perdersi in contrattazioni varie “fra 5 minuti devi iniziare sennò mi arrabbio”.
  5. EVITARE DI SENTENZIARE. MEGLIO DUBITARE. “È difficile, chissà se ci riesci” ; “Credo che ci metterai almeno 10 minuti a finire l’esercizio, è difficile farlo in meno tempo”. Frasi di questo tipo predispongono i figli e li invogliano a sperimentarsi in piccole sfide (da calibrare in base all’età e alle capacità). 
 
Per approfondimenti si rimanda al libro “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.NARDONE e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica.
 
Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
 
Per maggiori informazioni:
danielabirello@gmail.com
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La Terapia Breve Strategica

1/18/2017

 
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"L'approccio strategico nell'ambito della psicoterapia può essere definito come l'arte di risolvere complicati problemi umani mediante soluzioni "apparentemente" semplici ... nonostante, infatti, certi problemi o sofferenze persistano da molti anni non per questo sono necessarie altrettanto lunghe degenze e complicate soluzioni."
Giorgio Nardone
 
La Terapia Breve Strategica

COS’È
La Terapia Breve Strategica™ è un approccio originale alla soluzione dei problemi umani che presenta specifici fondamenti teorici e prassi operative in costante evoluzione sulla base dell’esperienza empirica.

COME FUNZIONA
Si tratta di un approccio breve (al di sotto delle 20 sedute) che si occupa da una parte di eliminare i sintomi e i comportamenti fonte di sofferenza, dall’altra di produrre un cambiamento nelle modalità attraverso le quali una persona costruisce la propria realtà personale e interpersonale.

A differenza delle tradizionali teorie psicologiche e psichiatriche, un terapeuta strategico non utilizza nessuna definizione di “normalità” o “patologia” psichica; si basa piuttosto sui concetti di “funzionalità” o “disfunzionalità”.

Da un punto di vista strategico, quindi, per cambiare una situazione problematica, non è necessario indagare e svelare le cause passate (aspetto su cui, peraltro, non si avrebbe nessuna possibilità di intervento), ma risulta più utile lavorare sul come il problema funziona nel presente e su quali strategie siano più adatte a creare un cambiamento efficace e duraturo.

Per raggiungere questo risultato nella maniera più rapida ed efficiente possibile, l’intervento strategico è di tipo attivo e deve produrre risultati già a partire dalle prime sedute.

LE TENTATE SOLUZIONI
Secondo Erickson “ogni individuo possiede caratteristiche uniche ed irripetibili”.
Altrettanto originale, secondo l’approccio breve strategico, è l’interazione del singolo con se stesso, gli altri e il mondo.
Di conseguenza, anche l’interazione terapeutica dovrà essere unica e irripetibile.
Sta al terapeuta adattare la propria logica e il proprio linguaggio a quello del paziente procedendo, in tal modo, nell’indagine delle caratteristiche del problema da risolvere, sino alla rilevazione della sua specifica modalità di persistenza. Tecnicamente, questa è la fase di indagine sulle “tentate soluzioni” (il principale strumento operativo del lavoro strategico).

In pratica, si tratta di individuare quali sono i tentativi di soluzione ridondanti, ossia quell’insieme di azioni personali, pensieri soggettivi, dinamiche relazionali, emozioni dominanti, ecc. che costantemente la persona mette in atto nel tentativo di superare il problema.
 
Una volta individuate le peculiarità della persistenza del problema, il terapeuta potrà utilizzare la logica di Problem Solving che appare più idonea. Se la modalità di persistenza del disturbo appare tra quelle ben note si potrà utilizzare una sequenza formalizzata di strategie e soluzioni, ossia un protocollo specifico di trattamento.

Negli anni, presso il Centro di Terapia Breve Strategica di Arezzo, abbiamo perfezionato molti protocolli specifici di trattamento per problemi come gli attacchi di panico, l’agorafobia e la claustrofobia, l’ipocondria, i disturbi ossessivi e quelli ossessivo-compulsivi, quelli sessuali e per le principali forme di disordine alimentare come l’anoressia, la bulimia e il vomiting. Se al contrario il meccanismo di persistenza del problema sembra avere aspetti di originalità, si escogiterà una serie di strategie costruite ad hoc.
​
In entrambi i casi, sarà la misurazione dei risultati di volta in volta prodotti – non solo tra l’inizio e la fine della terapia, ma durante ogni singola fase del processo terapeutico – a guidare i successivi passi terapeutici, come in un rigoroso modello matematico.
 
COSTRUIRE AUTONOMIA E INDIPENDENZA È IL FINE ULTIMO DELLA TERAPIA
Il cambiamento strategico è efficace quando mette la persona in condizione di non doversi più “appoggiare” o farsi aiutare, ma essere in grado di gestire in prima persona le esperienze che la vita le propone.

Questa metodologia permette nella maggioranza dei casi di sbloccare la patologia molto rapidamente.  
A tale cambiamento corrisponde un progressivo innalzamento di autonomia personale e un incremento dell’autostima, dovuto al recupero della fiducia nelle proprie risorse e capacità personali. Da quest’ottica, appare assurda la usuale convinzione che problemi e disagi che persistono da molto tempo, necessitino obbligatoriamente, per essere risolti, di un altrettanto lungo e sofferto trattamento terapeutico.


In molti casi, mediante un piano strategico ben congeniato e ben applicato, si possano sbloccare, in tempi rapidi (talvolta dopo un solo incontro), problemi e disturbi radicati da anni

DATI DI EFFICACIA ED EFFICIENZA DELLA PSICOTERAPIA BREVE STRATEGICA
Gli esiti positivi dell’applicazione del modello si attestano sul 88% dei casi trattati, con efficacia ancora più elevata per i disturbi fobici-ossessivi dove raggiunge il 95%.

​L’efficienza relativa alla completa guarigione dal disturbo (che include tre incontri di follow-up) si attesta su una media di 7 sedute per l’intero trattamento.
 
Risultati di efficacia dei protocolli di trattamento:
  • Disturbi fobici e ansiosi (95% dei casi)
  • Disturbi ossessivi e ossessivo-compulsivi (89% dei casi)
  • Disordini alimentari (83% dei casi)
  • Disfunzioni sessuali (91% dei casi)
  • Disturbi dell’umore (82% dei casi)
  • Disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza (82% dei casi)
  • Disturbi legati alla dipendenza da internet (80% dei casi)
  • Presunte psicosi, disturbo borderline e di personalità (77% dei casi)
 
Il fatto che le psicopatologie possano essere decisamente sofferte e persistenti da anni non significa che la terapia debba essere altrettanto sofferta e prolungata nel tempo.


Per approfondimenti si rimanda a:
  • “L'Arte del cambiamento. La soluzione dei problemi psicologici personali e interpersonali in tempi brevi”, Giorgio Nardone, Paul Watzlawick
  • “Cambiare per conoscere. L'evoluzione della terapia breve strategica”, Nardone, Portelli​

​Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)


​Per maggiori informazioni: danielabirello@gmail.com

Genitori e attività sportiva del figlio: siate supporters, non tifosi

1/9/2017

 
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Lo sport dovrebbe essere vissuto senza esasperazioni, divertendosi.
Se l’atleta in questione è un bambino o un adolescente, di fondamentale importanza diventa il ruolo dei genitori.
I figli sono molto sensibili a quello che mamma e papà pensano di loro, a come li vedono, a ciò che si aspettano da loro.

Un’efficace leggerezza genitoriale nei confronti dell’attività praticata dal ragazzo (o dal bambino) ha il potere di facilitare il 
superamento dei limiti, far sperimentare il piacere di riuscire e potenziare le capacità personali, condividendole e validandole.

Mamme, papà, qualunque sia lo sport scelto da vostro figlio, qualsiasi sia il livello raggiunto, non sottovalutate mai l’aspetto ludico!
Vivere tale attività sportiva in modo sereno e costruttivo è la scelta più saggia che un genitore possa fare!

Evitare di fare i “genitori tifosi”
Tifosi sono quei genitori che si lasciano coinvolgere troppo nella vita sportiva del figlio. 
Iper-esigenti, non perdono mai un suo allenamento. In occasione di gare o partite 
sono sempre in prima fila.

Di continuo, tendono a spingerlo verso l’eccellenza, anche quando le capacità non sono ancora maturate. 
Con fatica ne elogiano i successi, con facilità ne sottolineano gli errori. Rispetto al rapporto con l’allenatore, sono sempre pronti a intervenire criticando e dicendo la loro.

Attenzione! 
Un minimo coinvolgimento nello sport del figlio è funzionale, ma quando questo diventa troppo, rischia di trasformarsi in disfunzionale, generando in lui ansia, paura di non essere all’altezza, chiusura in sé stesso, o addirittura, odio nei confronti dello sport in questione.

Essere supporters, incoraggiare a migliorare
L’atteggiamento più efficace è quello che vede mamma e papà supporters del figlio: presenti, ma in uno spazio circoscritto, senza invadere quello del giovane atleta.

Le parole chiave che un genitore dovrebbe seguire per diventare supporter sono 
fiducia e rispetto, perché credere davvero nei propri figli e nelle loro capacità sportive contribuisce a renderli vincenti!
È una 
profezia che si autorealizza*!

Gli errori, anche durante l’attività sportiva, sono essenziali per la crescita caratteriale e il potenziamento motorio.

Accogliere gli errori del figlio senza rimproveri o ricatti lo incoraggia a fare di più, plasmando capacità reali, dimostrabili agli occhi di compagni di squadra e avversari.

E ancora:
  • aiutare il ragazzo a definire obiettivi realistici
  • incoraggiare la sua autonomia e indipendenza responsabilizzandolo nella conduzione del suo sport: “oggi organizzati da solo per andare a tennis, io ti vengo a prendere”.
  • fare domande piuttosto che sentenziare: “come sono le tue condizioni fisiche di oggi? Quanto pensi di fare in gara?”; piuttosto che: “oggi devi assolutamente superare il tempo che hai fatto la scorsa volta”!

Ultimo aspetto, di non poca importanza, è il rapporto con l’allenatore e gli altri componenti del gruppo sportivo.

Evitare di fare il genitore che interferisce sulle scelte tecniche operate dal coach rende il giovane atleta più responsabile, autonomo e lo mette nelle condizioni di poter godere a pieno delle soddisfazioni, una volta che arrivano.

Tutti i ragazzi dovrebbero avere l’opportunità di praticare uno sport.Sport è sinonimo di regole da rispettare, diritti e doveri uguali per tutti, stimoli continui orientati al miglioramento delle proprie performance, sacrificio, messa alla prova, responsabilità in nome della squadra o di sé stessi.

Si tratta di un’esperienza estremamente positiva per la crescita personale e con genitori supporters al proprio fianco sarà ancora più efficace!

** profezia che si autorealizza: fenomeno di cui si sono interessati diversi studiosi, Watzlawick, Rosenthal, Szasz e Rosenhan. È la profezia o supposizione che, per il solo fatto di essere stata formulata, fa realizzare l’evento predetto, confermando in tal modo la propria veridicità.


Per approfondimenti si rimanda a:
  • “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.Nardone e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica
  • “Lo Zen e l’Arte di Far Muovere i Nostri Figli. Gioco, movimento, corretta alimentazione – Prevenzione e cura del sovrappeso infantile – Aspetti medici, psicologici, nutrizionali”, Attilio Speciani, Luca Speciani, Pietro Trabucchi
  • “Mente e Maratona. Per imparare a correre, con il corpo e con la mente, la gara più bella del mondo”, Luca Speciani, Pietro Trabucchi
  • “Resisto Dunque Sono. Chi sono i campioni della resistenza psicologica e come fanno a convivere felicemente con lo stress”, Pietro Trabucchi

Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)


​Per maggiori informazioni: danielabirello@gmail.com

Mutismo selettivo: cos’è e cosa fare

12/17/2016

 
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Il mutismo selettivo è una difficoltà nel linguaggio.

Può apparire dai 3 ai 6 anni. Si manifesta con il rifiuto o incapacità da parte del bambino di comunicare verbalmente.

Cosa si fa, di solito, senza ottenere successo?

Per cercare di risolvere il mutismo selettivo del piccolo che lo manifesta, “con le migliori intenzioni” – come recita la celebre frase di Oscar Wilde – solitamente si iniziano ad aumentare le attenzioni nei suoi confronti.
In maniera dolce e affettuosa, lo si invita a parlare. In ogni occasione, si cerca di farlo comunicare.


Attenzione! È proprio tale tentativo che fa “ottenere i danni peggiori” – per concludere la frase di cui sopra. 
L’insistere con le attenzioni si rivela fallimentare.
Ciò che si pensava potesse ridurre il problema, con il tempo, si trasforma in ciò che, al contrario, lo amplifica.In più, quelle che erano difficoltà per il bambino, con il tempo, rischiano di trasformarsi in vantaggio: il mutismo selettivo, da problema diventa un modo per ottenere ancora più coccole e considerazione.

Cosa, invece, è efficace fare?
Se vi trovate di fronte al rigido mutismo di vostro figlio:
  • cessate qualunque tipo di pressioni per farlo parlare.
  • Se comunica a gesti, ammiccamenti, o attraverso altri canali di comunicazione non verbale dichiarategli di non capire ed evitate di assecondare le sue richieste (in questi casi risulta efficace il fingere di non essere in grado di capire la richiesta: è la tecnica del saggio che si finge stolto).

Quando, vostro figlio presenta mutismo con gli adulti, ma non con gli altri bambini:
  • evitate di rivolgervi direttamente a lui, ma utilizzate gli altri bambini come intermediari. I bambini mal sopportano l’esclusione e la valorizzazione degli altri. Se si segue l’indicazione di non rivolgersi direttamente a lui, si otterrà la ribellione da parte sua a tale esclusione e il cambio di rotta, ovvero inizierà a esprimersi direttamente con l’adulto (la strategia è molto efficace in ambito scolastico, dove sarà l’insegnante a metterla in atto).

Qualora il problema sia presente a scuola, coinvolgere le maestre è importante. 
Chiedete loro di:
  • non concedergli troppe attenzioni. Non ricevendo più tutto subito come prima affinché parli il bambino è nella condizione di dover chiedere le cose, parlare;
  • impegnare i coetanei a eseguire giochi e compiti: vedendo i bambini impegnati a giocare e non più concentrati su di lui, comincerà a inserirsi tra loro e, per ottenere attenzione, comincerà a parlare;
  • chiamarlo con un altro nome, per rivolgersi a lui. Così facendo presto si otterrà una repentina reazione da parte sua: sentendosi chiamare con un altro nome si ribellerà puntualizzando quale sia il proprio.

Per approfondimenti si rimanda al libro “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.Nardone e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica.

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Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
Per maggiori informazioni: danielabirello@gmail.com

Amore e donne: le trappole del… “TROPPO”

10/27/2016

 
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Amore, donne, trappole

In alcune relazioni amorose la donna è perennemente impegnata nel guidare il proprio partner nel percorso da seguire. 

Quando ciò diventa la regola, inevitabilmente, indebolisce l’unione e rischia di intaccarne la durata. Pur se mosse con le migliori intenzioni, le donne con questo tipo di comportamento in amore, rischiano di ottenere i risultati peggiori (riprendendo una celebre frase di Oscar Wilde).

Il Professor Giorgio Nardone ha ben illustrato tale dinamica sentimentale in tre dei diversi “copioni di gestione” amorosa femminile individuati negli anni presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo: la braccatrice, la crocerossina e la dilagante.

La BRACCATRICE (troppo bisogno della relazione) 
La donna-braccatrice è spinta dal desiderio di creare il proprio nucleo amoroso e sentimentale. Come un predatore, vive alla continua ricerca dell’uomo giusto, quello capace di “mettere su famiglia” insieme a lei.

Per ottenerlo è disposta a tutto. Anche l’amicizia con altre donne è da considerarsi, spesso, finalizzata al suo scopo. A dimostrazione di questo è il comportamento che adotta subito dopo aver individuato il proprio partner: 
si isola (insieme a lui) per paura che quest’ultimo possa essere sedotto da un’altra donna.

La gelosia ne rappresenta un tratto distintivo. Ogni altra donna è vista come potenziale rivale. La smania di sicurezza sentimentale tipica della donna-braccatrice fa si che, il più delle volte, si accontenti: 
per paura che non ne passi un secondo, sale sul primo treno utile. L’epilogo? I giorni si susseguono nel grigiore della sicurezza, senza slanci di luce e di colore, mentre i figli diventano il diversivo che colma i vuoti lasciati dalla relazione.

La CROCEROSSINA (troppo aiuto, troppo bisogno di dare) 
È un copione noto a molti. La donna-crocerossina ha, sempre, necessità di qualcuno da curare. Non è attratta dalle mode, non dedica tempo alla cura di sé. Piuttosto, preferisce focalizzarsi sul migliorare le proprie capacità di soccorso verso l’altro.

La dinamica che meglio rappresenta la relazione di una donna-crocerossina e la sua metà è quella tipica fra “infermiere-degente”. Qual è, dunque, il rischio che corre una crocerossina? Semplice: è che il partner, una volta guarito, si allontani. Ed è proprio quando tale guarigione si realizza che la passione svanisce. Il malanno termina, la crocerossina non è più crocerossina. La relazione si conclude e lei è costretta a cercare un nuovo malato da curare. Paradossalmente, il partner di una crocerossina, per poter durare, dovrebbe migliorare, ma non guarire! 

La DILAGANTE (troppo tutto)
La donna-dilagante è un turbine di energia, come l’acqua che esonda e travolge tutto ciò che trova lungo il percorso. Ha una forte autostima (forse eccessiva), è sensuale e sa di esserlo.
Eccelle in quasi tutto quello che fa. Questo suo modo di essere, e i risultati che raggiunge in ogni campo, la rendono stimata da molti e, allo stesso tempo, invidiata da altrettanti.

I problemi si presentano, tendenzialmente, poco dopo l’inizio del legame amoroso: la donna-dilagante, prima è vista come la più desiderabile tra le amanti; poi arriva a pagare per la propria esuberanza. Man mano che la relazione procede, il partner non riesce a trovare il suo spazio nella coppia. Sempre pronta a criticare il compagno per stimolarlo (anche in questo caso con le migliori intenzioni), lo allontana (ottiene gli effetti peggiori).

La difficoltà di una donna dal copione sentimentale dilagante non è tanto quella di trovare un uomo, ma di saperselo tenere. L’unica soluzione che ha è quella di trovare un uomo debole, che si lasci correggere ed educare. Così facendo le resterà un’unica frustrazione: non avere a fianco l’uomo che, realmente, meriterebbe.

Cosa fare se ci si accorge di essersi intrappolati in uno di questi “copioni di gestione amorosa disfunzionale”? 
Premesso che un cambiamento radicale delle proprie modalità di percezione e reazione acquisite rispetto al rapporto di coppia risulta impossibile, quello che è utile fare è allenarsi, sotto la guida di un professionista, a una gestione funzionale (più flessibile e adattabile) del proprio stile di relazione con il partner.

Attraverso una consulenza o una terapia di coppia dall’approccio breve strategico, si potrà concordare l’obiettivo da raggiungere che non sarà quello di una totale trasformazione del legame (che rischierebbe, inevitabilmente, di romperlo) ma quello di sviluppare la capacità di  gestire le proprie tendenze modulandole e riorientandole in modo da renderle sempre funzionali. Per maggiori informazioni o appuntamento si rimanda qui.
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Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica).
Per maggiori informazioni: danielabirello@gmail.com.

Per approfondimenti sul tema si rimanda al libro “Gli errori delle donne (in amore)”, G.Nardone.
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    La Birello

    Psicologa e Psicoterapeuta.
    ​Specialista in Psicoterapia Breve Strategica

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