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Dott.ssa Daniela Birello, Psicologo - Psicoterapeuta, Specialista in Psicoterapia Breve Strategica. Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica di G. Nardone. Cell. 347 4897372. ​Riceve a Pontedera, Pisa, Livorno
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La messa a letto

6/6/2017

 
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Spesso i genitori lamentano difficoltà nella messa a letto dei figli.
Ciò che fanno, solitamente, per cercare di risolvere il problema è continuare a farli dormire nella culla accanto al letto matrimoniale o nel letto matrimoniale stesso. Puntualmente però questo non porta a grandi risultati.
 
Per non rischiare che la stanchezza prenda il sopravvento e mandi in tilt le energie dei genitori può essere opportuna un’azione più incisiva, da replicare quotidianamente per una ventina di giorni.

L’obiettivo è trasformare la nanna in una sana esperienza routinaria sia per i piccoli che per i genitori stessi. Quindi:
  • allontanare il lettino dalla camera matrimoniale;
  • spostarlo nella cameretta insieme a un’accurata selezione di oggetti che da quel momento in poi accompagneranno il piccolo durante le notti: il peluche preferito, la giostrina girevole sopra la culla e, se lo utilizza, un ciuccio pronto all’uso.
 
Dato che i bambini sono molto abitudinari sarà importante procedere tutti i giorni nello stesso modo:
  • coccolare e giocare con il piccolo per una mezz’ora;
  • portarlo nella sua cameretta;
  • metterlo a letto insieme agli amici della notte dandogli un bel bacione e allontanandosi subito.
 
La prima sera, non vedendo né il papà né la mamma in camera con lui, potrebbe aumentare il numero dei pianti; la seconda sera, con molta probabilità, se si rimane fermi nell’intervento il numero dei pianti e dei risvegli inizierà a diminuire.
 
Se il pianto si prolunga, ogni tre minuti (alternandosi, e quindi una volta il padre e una volta la madre) si potrà andare da lui e dirgli, in maniera dolce e sicura, che dormirà da solo con il suo peluche, il ciuccio e la giostrina.
Mentre si dichiara ciò, sarà molto importante evitare di prenderlo in braccio o dargli la mano per farlo addormentare.

Apparentemente, fare così potrebbe sembrare duro ma in realtà, una volta che la mamma capisce che il pianto del suo bambino è una lamentela e che differisce dal tipico pianto per fame o per bisogno di essere cambiato, potrà procedere senza timore. Spesso i figli utilizzano il pianto per far si che i genitori li prendano in braccio!
 
Se il problema persiste è possibile chiedere una consulenza o una terapia breve strategica indiretta.  In pochi ma incisivi incontri i genitori potranno concordare con il terapeuta l’obiettivo da raggiungere e ricevere le indicazioni mirate alla loro situazione. Per richiedere un appuntamento si rimanda qui.
 
 
Per approfondimenti si rimanda al libro “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.NARDONE e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica.
 
Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
 Per maggiori informazioni sul tema o per richiedere un appuntamento: danielabirello@gmail.com

Photo by Bastien Jaillot - Unsplash

Bambini e cibo: vietare per ottenere

5/27/2017

 
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Milton Erickson desiderava che suo figlio minore mangiasse le verdure, ma il figlio non era dello stesso avviso. Più volte la madre insistette col figlio, ma niente e nessuno poteva smuoverlo dalla sua decisione.
Erickson allora prese a vietargli di mangiarle: “Le verdure sono solo per i bambini più grandi, non le puoi mangiare”.
Gli disse queste parole più volte, per diversi giorni, finché un giorno il figlio chiese: “Papà, adesso sono abbastanza grande per mangiare le verdure?”.
 
A tavola, il compito del genitore dovrebbe essere quello di far seguire al bambino una corretta alimentazione e invogliarlo a mangiare tutto ciò che è importante per crescere in salute.
Non sempre, però, ciò che l’adulto propone al bambino riscuote successo immediato: la tavola è uno dei luoghi ideali per “avere il coltello dalla parte del manico”.
 
Spesso, l’ora dei pasti si trasforma in teatro di ricatti e sfide che i piccoli provocatori intraprendono per mettere in discussione le regole appena stabilite dall’adulto. Ciò che accade poi è che, di fronte a tali manifestazioni, ci si sente più fragili, e si cede, assecondando le bizze del figlio per paura che non mangi più.

Il danno è presto fatto: il momento piacevole del pasto si trasforma in una circostanza infernale.
 
Gestire i capricci a tavola: cosa non funziona?
In un’unica parola, non funziona l’esortazione. Ovvero, tutti quei tentativi che vanno dalla richiesta rigida del “mangia e zitto!”, a quella del ricatto “se mangi ti compro un regalo”.
 
Il forzare e fare pressioni
È il comportamento più utilizzato dagli adulti che si trovano a fronteggiare il problema: il bambino rifiuta di mangiare un alimento, il genitore tende a insistere nel tentativo di far mangiare il figlio sperando che ceda.
Questo perché l’eventualità che il figlio possa mangiare di meno, o addirittura saltare il pasto crea angoscia e genera fantasie catastrofiche: “non mangerà, non crescerà, avrà problemi”.
L’insistenza si trasforma man mano in costrizione, mette il bambino a disagio e gli impedisce di vivere la sensazione del piacere che dovrebbe accompagnare l’esperienza del pasto. Proseguendo su questa linea, arriveranno presto i capricci e i rifiuti ostinati che porteranno l’interazione genitore-figlio verso l’innescarsi di vero e proprio “braccio di ferro”.
 
L’invogliare e il promettere
In altri casi, di fronte al rifiuto di mangiare qualcosa il genitore promette premi o ricompense in cambio del piatto pulito. Molti genitori hanno difficoltà a tollerare i conflitti con i propri figli, e per questo, trovano come via d’uscita proprio la contrattazione. Giocattoli, permessi a cose di solito non consentite diventano la leva per cercare di estorcere che il figlio mangi. Purtroppo, quando questa soluzione diventa la regola, il bambino apprende che sarà sufficiente lagnarsi un po’ per riuscire a ottenere ciò che desidera. Anche in questo caso, il piacere di mangiare viene sostituito dal piacere di ottenere qualcosa.
 
Cosa funziona? Il vietare per ottenere
Interrompere le tentate soluzioni* del forzare e fare pressioni e dell’invogliare e promettere è il primo passo.
In terapia breve strategica rendiamo possibile ciò chiedendo ai genitori di impegnarsi nell’evitare di parlare del problema e nell’interrompere ogni forma di “forzatura” a mangiare.

Tale indicazione permette di ottenere una prima inversione di rotta del problema: i “vantaggi secondari” del comportamento problematico, ovvero i benefici che il bambino ottiene mantenendo quel comportamento, si interrompono.

A questo punto, segue la negazione, ovvero, il vietare per ottenere.
I genitori dovranno mettere in pratica alcuni piccoli boicottaggi, proprio come nell’aneddoto di Milton Erickson.
Dichiarare al figlio che certi cibi sono “solo per i grandi” vietandone l’assaggio; fare porzioni minime nel suo piatto, gustare pietanze prelibate in sua presenza ostentando piacere e, esclusivamente nei casi in cui il figlio si lamenta prima di essersi seduto a tavola, proibire di sedersi a tavola a mangiare o non apparecchiare per “chi non ha appetito”.
Cambiare rotta inserendo tali indicazioni e mantenendole per un certo periodo equivale a frustrare il sintomo e porta il bambino ad abbandonare la posizione rigida assunta fino a quel momento.
 
Attraverso una consulenza o una terapia breve strategica indiretta, i genitori potranno chiedere l’intervento più efficace per il proprio caso concordando con il terapeuta l’obiettivo da raggiungere.
Saranno sufficienti pochi ma incisivi incontri affinché i genitori acquistino maggiore sicurezza e capacità nella gestione del problema, fino a farlo svanire.  Per richiedere un appuntamento si rimanda qui.
* è il principale strumento operativo del lavoro strategico ed è rappresentato da tutti quei tentativi di soluzione ridondanti (azioni personali, pensieri soggettivi, dinamiche relazionali, emozioni dominanti, ecc) che costantemente la persona mette in atto nel tentativo di superare il problema, ma che invece di risolverlo lo amplificano.
 
Per approfondimenti si rimanda al libro “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.NARDONE e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica.
 
Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
 

Per maggiori informazioni sul tema o per richiedere un appuntamento: danielabirello@gmail.com

GENITORI E COMPITI POMERIDIANI DEI FIGLI: 5 ERRORI DA EVITARE

1/27/2017

 
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Nessuno nasce autonomo e desideroso di fare i compiti.
Autonomia e piacere per lo studio, soprattutto in età scolare, possono essere raggiunti, solo e soltanto, se allenati quotidianamente.

Cosa è efficace fare da genitori quando i figli mostrano difficoltà e controvoglia rispetto ai compiti pomeridiani?

  1. EVITARE DI SOSTITUIRSI A LORO. È bene ricordare che mamma e papà possono accompagnare, incoraggiare, ma mai sostituirsi totalmente ai figli! I compiti sono un’azione da intraprendere in prima persona, una prova in cui è bene misurarsi da soli. Fare i compiti al posto dei figli, lì per lì potrebbe sembrare che funzioni, perché comunica “ti aiuto perché ti voglio bene”; subito dopo, diventa controproducente, perché non solo non da loro modo di imparare, ma li fa sentire man mano incapaci e demotivati a fare da soli (dopo il “ti aiuto perché ti voglio bene” arriva repentino anche il messaggio “mamma e papà ti aiutano perché pensano che da solo non sei in grado”).
  2. EVITARE DI CORREGGERE SEMPRE. Lasciare ai figli lo spazio, il tempo e il diritto di sbagliare, perché solo sbagliando si impara. Correggere puntualmente i figli, in particolare all’inizio della carriera scolastica, può demotivarli e impedire loro di acquisire fiducia nelle capacità personali. Più che fare i compiti al posto loro, è utile mandarli a scuola senza i compiti fatti. Tale possibilità, non andrebbe vissuta come un atto genitoriale irresponsabile, bensì efficace poiché rappresenta la via più immediata per sviluppare in loro senso di responsabilità e autonomia. 
  3. EVITARE IL TROPPO. ALTERNARE AIUTO E AUTONOMIA. “Leggi fino a qui, io ascolto, poi correggiamo insieme” ; “continua a esercitarti fino a questo punto, quando hai finito verifico”. L’aiuto dei genitori è funzionale solo se circoscritto all’inizio e alla fine di un compito. Solo così i figli hanno modo di sperimentare le proprie capacità e acquisire sicurezza.
  4. EVITARE DI NEGOZIARE, CONTRATTARE, TEORIZZARE. INDIRIZZARE VERSO L’AZIONE. Per far sì che inizino i compiti è bene coinvolgerli in un comportamento concreto: “È ora! Leggi l’esercizio e vediamo cosa chiede…”, senza perdersi in contrattazioni varie “fra 5 minuti devi iniziare sennò mi arrabbio”.
  5. EVITARE DI SENTENZIARE. MEGLIO DUBITARE. “È difficile, chissà se ci riesci” ; “Credo che ci metterai almeno 10 minuti a finire l’esercizio, è difficile farlo in meno tempo”. Frasi di questo tipo predispongono i figli e li invogliano a sperimentarsi in piccole sfide (da calibrare in base all’età e alle capacità). 
 
Per approfondimenti si rimanda al libro “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.NARDONE e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica.
 
Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
 
Per maggiori informazioni:
danielabirello@gmail.com
Photo by Hope-house-press I Unsplash

Genitori e attività sportiva del figlio: siate supporters, non tifosi

1/9/2017

 
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Lo sport dovrebbe essere vissuto senza esasperazioni, divertendosi.
Se l’atleta in questione è un bambino o un adolescente, di fondamentale importanza diventa il ruolo dei genitori.
I figli sono molto sensibili a quello che mamma e papà pensano di loro, a come li vedono, a ciò che si aspettano da loro.

Un’efficace leggerezza genitoriale nei confronti dell’attività praticata dal ragazzo (o dal bambino) ha il potere di facilitare il 
superamento dei limiti, far sperimentare il piacere di riuscire e potenziare le capacità personali, condividendole e validandole.

Mamme, papà, qualunque sia lo sport scelto da vostro figlio, qualsiasi sia il livello raggiunto, non sottovalutate mai l’aspetto ludico!
Vivere tale attività sportiva in modo sereno e costruttivo è la scelta più saggia che un genitore possa fare!

Evitare di fare i “genitori tifosi”
Tifosi sono quei genitori che si lasciano coinvolgere troppo nella vita sportiva del figlio. 
Iper-esigenti, non perdono mai un suo allenamento. In occasione di gare o partite 
sono sempre in prima fila.

Di continuo, tendono a spingerlo verso l’eccellenza, anche quando le capacità non sono ancora maturate. 
Con fatica ne elogiano i successi, con facilità ne sottolineano gli errori. Rispetto al rapporto con l’allenatore, sono sempre pronti a intervenire criticando e dicendo la loro.

Attenzione! 
Un minimo coinvolgimento nello sport del figlio è funzionale, ma quando questo diventa troppo, rischia di trasformarsi in disfunzionale, generando in lui ansia, paura di non essere all’altezza, chiusura in sé stesso, o addirittura, odio nei confronti dello sport in questione.

Essere supporters, incoraggiare a migliorare
L’atteggiamento più efficace è quello che vede mamma e papà supporters del figlio: presenti, ma in uno spazio circoscritto, senza invadere quello del giovane atleta.

Le parole chiave che un genitore dovrebbe seguire per diventare supporter sono 
fiducia e rispetto, perché credere davvero nei propri figli e nelle loro capacità sportive contribuisce a renderli vincenti!
È una 
profezia che si autorealizza*!

Gli errori, anche durante l’attività sportiva, sono essenziali per la crescita caratteriale e il potenziamento motorio.

Accogliere gli errori del figlio senza rimproveri o ricatti lo incoraggia a fare di più, plasmando capacità reali, dimostrabili agli occhi di compagni di squadra e avversari.

E ancora:
  • aiutare il ragazzo a definire obiettivi realistici
  • incoraggiare la sua autonomia e indipendenza responsabilizzandolo nella conduzione del suo sport: “oggi organizzati da solo per andare a tennis, io ti vengo a prendere”.
  • fare domande piuttosto che sentenziare: “come sono le tue condizioni fisiche di oggi? Quanto pensi di fare in gara?”; piuttosto che: “oggi devi assolutamente superare il tempo che hai fatto la scorsa volta”!

Ultimo aspetto, di non poca importanza, è il rapporto con l’allenatore e gli altri componenti del gruppo sportivo.

Evitare di fare il genitore che interferisce sulle scelte tecniche operate dal coach rende il giovane atleta più responsabile, autonomo e lo mette nelle condizioni di poter godere a pieno delle soddisfazioni, una volta che arrivano.

Tutti i ragazzi dovrebbero avere l’opportunità di praticare uno sport.Sport è sinonimo di regole da rispettare, diritti e doveri uguali per tutti, stimoli continui orientati al miglioramento delle proprie performance, sacrificio, messa alla prova, responsabilità in nome della squadra o di sé stessi.

Si tratta di un’esperienza estremamente positiva per la crescita personale e con genitori supporters al proprio fianco sarà ancora più efficace!

** profezia che si autorealizza: fenomeno di cui si sono interessati diversi studiosi, Watzlawick, Rosenthal, Szasz e Rosenhan. È la profezia o supposizione che, per il solo fatto di essere stata formulata, fa realizzare l’evento predetto, confermando in tal modo la propria veridicità.


Per approfondimenti si rimanda a:
  • “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.Nardone e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica
  • “Lo Zen e l’Arte di Far Muovere i Nostri Figli. Gioco, movimento, corretta alimentazione – Prevenzione e cura del sovrappeso infantile – Aspetti medici, psicologici, nutrizionali”, Attilio Speciani, Luca Speciani, Pietro Trabucchi
  • “Mente e Maratona. Per imparare a correre, con il corpo e con la mente, la gara più bella del mondo”, Luca Speciani, Pietro Trabucchi
  • “Resisto Dunque Sono. Chi sono i campioni della resistenza psicologica e come fanno a convivere felicemente con lo stress”, Pietro Trabucchi

Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)


​Per maggiori informazioni: danielabirello@gmail.com

Mutismo selettivo: cos’è e cosa fare

12/17/2016

 
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Il mutismo selettivo è una difficoltà nel linguaggio.

Può apparire dai 3 ai 6 anni. Si manifesta con il rifiuto o incapacità da parte del bambino di comunicare verbalmente.

Cosa si fa, di solito, senza ottenere successo?

Per cercare di risolvere il mutismo selettivo del piccolo che lo manifesta, “con le migliori intenzioni” – come recita la celebre frase di Oscar Wilde – solitamente si iniziano ad aumentare le attenzioni nei suoi confronti.
In maniera dolce e affettuosa, lo si invita a parlare. In ogni occasione, si cerca di farlo comunicare.


Attenzione! È proprio tale tentativo che fa “ottenere i danni peggiori” – per concludere la frase di cui sopra. 
L’insistere con le attenzioni si rivela fallimentare.
Ciò che si pensava potesse ridurre il problema, con il tempo, si trasforma in ciò che, al contrario, lo amplifica.In più, quelle che erano difficoltà per il bambino, con il tempo, rischiano di trasformarsi in vantaggio: il mutismo selettivo, da problema diventa un modo per ottenere ancora più coccole e considerazione.

Cosa, invece, è efficace fare?
Se vi trovate di fronte al rigido mutismo di vostro figlio:
  • cessate qualunque tipo di pressioni per farlo parlare.
  • Se comunica a gesti, ammiccamenti, o attraverso altri canali di comunicazione non verbale dichiarategli di non capire ed evitate di assecondare le sue richieste (in questi casi risulta efficace il fingere di non essere in grado di capire la richiesta: è la tecnica del saggio che si finge stolto).

Quando, vostro figlio presenta mutismo con gli adulti, ma non con gli altri bambini:
  • evitate di rivolgervi direttamente a lui, ma utilizzate gli altri bambini come intermediari. I bambini mal sopportano l’esclusione e la valorizzazione degli altri. Se si segue l’indicazione di non rivolgersi direttamente a lui, si otterrà la ribellione da parte sua a tale esclusione e il cambio di rotta, ovvero inizierà a esprimersi direttamente con l’adulto (la strategia è molto efficace in ambito scolastico, dove sarà l’insegnante a metterla in atto).

Qualora il problema sia presente a scuola, coinvolgere le maestre è importante. 
Chiedete loro di:
  • non concedergli troppe attenzioni. Non ricevendo più tutto subito come prima affinché parli il bambino è nella condizione di dover chiedere le cose, parlare;
  • impegnare i coetanei a eseguire giochi e compiti: vedendo i bambini impegnati a giocare e non più concentrati su di lui, comincerà a inserirsi tra loro e, per ottenere attenzione, comincerà a parlare;
  • chiamarlo con un altro nome, per rivolgersi a lui. Così facendo presto si otterrà una repentina reazione da parte sua: sentendosi chiamare con un altro nome si ribellerà puntualizzando quale sia il proprio.

Per approfondimenti si rimanda al libro “Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Problemi e soluzioni per il ciclo di vita”, G.Nardone e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica.

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Dott. ssa Daniela Birello (Psicologo – Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)
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    La Birello

    Psicologa e Psicoterapeuta.
    ​Specialista in Psicoterapia Breve Strategica

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